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La narrazione mediatica sulla Palestina è cambiata

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Viola Davis, Susan Sarandon e Dua Lipa sono solo alcune delle celebrità che hanno espresso solidarietà con il popolo palestinese, senza paura di esprimere il proprio dissenso sulle atrocità perpetrate da forze armate ed estremisti israeliani. Fino a qualche tempo fa era impensabile una presa di posizione così forte da parte di personaggi dello spettacolo a favore della causa palestinese. Il rinnovato interesse globale che stanno ricevendo le notizie dalla Palestina è indice che qualcosa nella narrazione degli eventi è cambiato.

Il 15 maggio le forze armate israeliane hanno bombardato il grattacielo di dodici piani di al-Jalaa, a Gaza City, al cui interno avevano sede le redazioni di Associated Press, Al Jazeera, Middle East Eye e altri media internazionali. In un video diventato virale si vede il proprietario della torre, Jawad Medhi, che tratta con un ufficiale israeliano in diretta TV, chiedendo che i giornalisti possano recuperare la loro attrezzatura prima che l’edificio venga raso al suolo.

Dopo il raid aereo che ha distrutto al-Jalaa, il Presidente e Amministratore Delegato di Associated Press, Gary Pruitt, ha rilasciato una dichiarazione: “Siamo sconvolti e inorriditi dal fatto che Israele abbia preso di mira e distrutto l’edificio dove avevano sede AP e altre testate giornalistiche a Gaza. Per colpa di ciò che è successo oggi, il mondo saprà meno su quello che sta accadendo a Gaza”.
In risposta, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato che l’attacco è stato “perfettamente legittimo”. Intanto Amnesty International ha richiesto un’indagine sull’accaduto, ricordando che gli attacchi diretti ai civili costituiscono crimini di guerra.

Non è una novità che Israele prenda di mira giornalisti e sedi di media locali e internazionali, ciò che è cambiato è il linguaggio usato per raccontarlo. Solo qualche settimana fa la ONG statunitense Human Rights Watch, nel suo ultimo report, aveva fatto scalpore accusando lo stato israeliano di crimini di apartheid e persecuzione. Dai post sui social alle interviste con le maggiori emittenti, i palestinesi non accettano più la neutralità della narrazione e si rifiutano di utilizzare termini come “conflitto”, “guerra”, “sfratto”, che risultano ridicoli per raccontare la violenta repressione che subiscono. La scorsa settimana, gli hashtag #IsraelTerrorism e #GenocideinGaza erano trending su Twitter negli Stati Uniti. Attivisti di prime e seconde generazioni in tutto il mondo sono stanchi di soppesare le parole per guadagnarsi un’intervista in una testata di prestigio, a Gaza non hanno più le forze per assecondare il timore dei giornalisti e dei loro pregiudizi sulla situazione in Palestina. Ora che gli account social sono diventati i nuovi media, Israele teme di perdere il controllo della narrazione.

Mohammed El-Kurd, scrittore palestinese che da settimane sta documentando ciò che accade nel suo quartiere di Gerusalemme Est al centro dell’attenzione mediatica degli ultimi giorni, Sheikh Jarrah, ha scritto: “Non penso che l’appoggio delle celebrità libererà la Palestina, ma forse c'è qualcosa di senza precedenti in questo livello di engagement?”. Secondo El-Kurd, i recenti video, diventati virali mostrando la brutalità dei coloni e della polizia israeliana nei confronti dei palestinesi, hanno contribuito ad un riconoscimento diffuso dell’oppressione del popolo palestinese.

Tuttavia, da quando sono iniziate le repressioni delle proteste a Sheikh Jarrah il sei maggio scorso, diversi utenti hanno denunciato la cancellazione dei propri post sui social e la sospensione degli account. Due settimane fa Adam Mosseri, capo di Instagram, ha scritto che la piattaforma ha subito un bug tecnico globale e che “non è correlato a nessun argomento in particolare”.

Da giovedì della scorsa settimana centinaia di utenti hanno segnalato che le loro storie su Instagram sono state rimosse, sia quelle nuove che quelle archiviate. Il giorno successivo, venerdì, quando le forze israeliane hanno invaso la moschea di Al-Aqsa, diversi utenti hanno riferito che il loro hashtag #AlAqsa è stato limitato su Instagram e Facebook, mentre gli account di decine di utenti sono stati sospesi da Twitter. Facebook ha dichiarato che l’hashtag è stato “erroneamente” limitato. Anche per Twitter la sospensione degli account si è trattata di un errore.

Non avendo accesso ad una copertura mediatica mainstream, i social media giocano un ruolo chiave per i palestinesi che vogliono documentare gli abusi e i crimini dell’esercito e dei coloni israeliani.

Marwa Fatafta, MENA Policy Manager per Access Now, organizzazione che si occupa della difesa dei diritti digitali degli utenti a rischio, ha scritto in un tweet che “Facebook sta mentendo, chiaro e tondo. Le storie di Instagram vengono eliminate, i live streaming bloccati, i contenuti relativi a Gerusalemme vengono limitati. Alcuni utenti non riescono nemmeno a pubblicare un commento. Questo non è un problema tecnico del sistema, è una censura intenzionale”.

Zuckerberg e soci non sono nuovi alle accuse di censura dei contenuti pro-Palestina sotto le pressioni del governo israeliano. Nel 2016 il ministro della Giustizia israeliano, Ayelet Shaked, dichiarò che Facebook rimosse il 95% dei 158 contenuti che Israele chiese di eliminare tra maggio ed agosto di quell’anno. YouTube ne rimosse l’80%. Il ministro, appartenente al partito estremista e sionista Jewish Home, motivò le richieste sostenendo che i social dovessero rimuovere i “contenuti che Israele ritiene d’incitamento all’odio”. Intanto, da giorni gruppi di israeliani estremisti coordinano tramite chat su Signal attacchi ai palestinesi e alle loro attività in diverse città miste tra cui Bat Yam, Gerusalemme e Haifa.

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